#Anni70 #Barbie #Ken #quarantenni #Donne

Noi, figlie delle merendine

di Cristina Veronese

Abbiamo vissuto l’infanzia negli anni 70, il nostro modello era la Barbie. Desideravamo quasi tutte diventare da grandi come lei: bionda, magra e gambe tornite. Ma soprattutto siamo cresciute con la voglia di incontrare il nostro Ken anche lui biondo, meno virile del Big Jim con cui giocavano i nostri fratelli, ma ben scolpito e affascinante. Un gentleman che ci venisse a prendere con una spider rossa, che si tuffasse con noi in piscina e soprattutto che ci accompagnasse in smoking alle feste.

Arrivano poi gli anni 80 e ci troviamo adolescenti, grassottelle perché di merendine e patatine negli anni 70 ne abbiamo mangiate molte, quasi tutte brufolose, ad ascoltare i Duran Duran in gita scolastica. È l’epoca dei paninari, di Madonna e purtroppo dell’eroina. I modelli sono nel frattempo cambiati e le donne diventano polpose: Drive In, Sabrina Salerno e Samantha Fox. C’è un film di questi anni che ci ha segnate a vita: 9 settimane e 1/2. Il nostro obiettivo maschile passa da un Ken in bermuda hawaiani a un Mickey Rourke yuppie che ci porti a vivere in un moderno loft e che ci sappia “intrattenere” con fantasia.

Anni 90: incomincia il riciclaggio delle mode degli anni precedenti. Nasce quella insinuante idea, ancora attuale:

l’idea che noi non dobbiamo, anzi non possiamo invecchiare.

Centri estetici, massaggiatori, sudatori, vibratori, creme miracolose a base di qualsiasi cosa. Ho visto recentemente una crema a base di bava di lumaca, su un’altra c’era la foto di un serpente e non ho osato avvicinarmi; non concepisco l’utilizzazione degli animali per l’alimentazione, figuriamoci per l’estetica!

In definitiva: noi, figlie delle merendine, ci ritroviamo ora quarantenni e vorremmo ancora le gambe della Barbie, il seno della Salerno, il loft di Rourke e magari il nostro Ken.

#LeMieEmozioni

di Cristina Veronese

(Pubblicato su Confidenze n°51 del 12 dicembre 2017)

Certe cose non si dimenticano…

Sotto gli aghi profumati di un vero abete, c’era un pacco enorme con scritto il mio nome. La magia del Natale 1976 si era ripetuta come gli anni precedenti, anche se questa volta conoscevo la non-identità di Babbo Natale. Un alunno di quarta l’aveva confidato a un mio compagno di seconda che aveva trasmesso la notizia a tutti durante l’intervallo. Qualche bimbo aveva pianto, qualcuno scrollato le spalle e altri, come me, erano rimasti in silenzio. Mia madre aveva confermato la soffiata: fu così che persi il mio primo sogno. Mentre guardavo la carta con le slitte, cominciai a concentrarmi sul possibile contenuto e non più alla sua sfatata provenienza.

L’avevo visto solo in pubblicità, sulla pagina ruvida e giallognola di Topolino e ora quel regalo davanti a me, forse… Sì era proprio lui: il Dolce Forno! Chi ci ha giocato, come me negli anni 70, si ricorderà sicuramente il principio di funzionamento di quel gioiello tecnologico che “cuoceva” grazie al calore di due normalissime lampadine. Avevo 7 anni e volevo imitare mia mamma, ottima cuoca piemontese. Il massimo che avessi fatto sino ad allora era stato girare la manovella dell’Imperia, la macchina per fare la pasta in casa, operazione che eseguivo con grande impegno e che avveniva quasi ogni domenica.

La cavia dei miei primi esperimenti culinari fu Cristiano, mio fratello, che all’epoca del misfatto aveva 4 anni ed era tanto ingenuo da allargare la bocca e ingurgitare le prelibatezze da me preparate. Nelle tre teglie in leggero alluminio alloggiavano impasti crudi che emanavano un odorino di affumicato che non ho più avuto il dispiacere di sentire in seguito. Risultato: venivo sgridata per aver sporcato la cucina e soprattutto per aver causato mal di pancia a mio fratello. L’unica pietanza passabile che riuscivo a preparare e addirittura a mangiare erano le pizzette, che come consigliato nel ricettario del forno, venivano preparate utilizzando, come base, una fetta di pancarré smussata. Il seguito non è stato migliore e la notizia si è sparsa nell’entourage familiare. Nel 1991, al momento della comunicazione del mio fidanzamento, mia madre si era quindi sentita in dovere di avvisare il futuro sposo del mio deficit culinario. Nei primi anni di vita coniugale mi sono impegnata in cucina con determinazione e con risultati discutibili, molto discutibili. Durante i pranzi ufficiali nei quali tutti portavano qualcosa, a me venivano, chissà perché, commissionati formaggi e addobbi per la tavola. Come dice mio fratello, che al contrario di me cucina benissimo, è meglio che io mi occupi del fumo e non dell’arrosto. Cristiano, forse proprio grazie a me, aveva intuito che le donne della nostra generazione non erano come le nostre mamme e che sarebbe stato meglio correre ai ripari, ora sforna pizze e torte da gourmet. Io invece continuo ad avere la sensazione che i piatti che cucino non finiranno mai su Instagram.

Sono vegetariana da oltre 30 anni e questa peculiarità non ha sicuramente aiutato a cimentarmi nelle seconde portate. All’inizio mi spendevo in lunghe conversazioni per spiegare la mia scelta di vita senza borse in pelle, senza cuoio e soprattutto senza animali nel piatto. Una vera rompi-bon-bon, con scarpe in tessuto o plastica tutto l’anno. Col tempo ho capito che questo tipo di sensibilità si può trasmettere solo a chi è già predisposto e in un certo senso mi sono arresa, oggi pratico la mia fede animalista senza far troppo rumore. Mio padre, a riguardo, sostiene che io non sia normale. Lo prendo come un complimento.

Ma ritornando alla mia personalissima nouvelle cuisine: verso la fine degli anni 90 ci fu un meraviglioso déjà-vu, un colpo di fulmine. Era pesante, ingombrante, bianco, con uno spesso vetro nero e quando si chiudeva lo sportello si udiva un rumore sordo inconfondibile: il forno a microonde… e fu la stessa emozione provata davanti al mio rosso Dolce Forno.

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Sono diventata una specialista della cottura a onde invisibili, anche se ho già fatto esplodere di tutto. E i miei figli? Jacopo, il più grande, 19 anni, ormai si è rassegnato e preferisce farsene o uscire a cena con gli amici; Leonardo, il leoncino di 8, mi chiede spesso di fargli la pasta con l’uovo crudo “come quella che fa la nonna”, che poi per amore di mamma sono riuscita anche ad imparare a fare, ma nonostante titanici sforzi la mia fama di pessima cuoca è rimasta immutata e dagli anni 70 continuo a non deludere nessuno. Chissà quest’anno per il pranzo natalizio in famiglia cosa cucinerò di buono… ok porto i formaggi francesi.

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